IL PRETORE
   Letti gli atti e sciogliendo la riserva nel giudizio portante il n.
 3072/1994  reg.  gen.  es.,  vertente  tra la sig.ra Grasso Domenica,
 creditrice procedente, contro  Pagano  Nicola  -  in  esecuzione  del
 decreto  del  20  maggio 1994 del tribunale civile di Barcellona P.G.
 che  ha  attribuito  alla  sig.ra  Grasso  una  quota  pari  al   40%
 dell'indennita'  di  fine  rapporto - questo giudice ritiene di dover
 sollevare questione di legittimita'  costituzionale  in  ordine  alla
 norma prevista dall'art.  12-bis della legge 1 dicembre  1970, n. 898
 introdotto dall'art.  16 della legge 6 marzo 1987, n. 74.
   La  suddetta  norma  appare  in  contrasto con gli artt. 3, 29 e 38
 della Costituzione per i motivi che seguono:
   1. - In ordine alla  compatibilita'  della  norma  de  quo  con  il
 principio  di uguaglianza, il riferimento contenuto nell'art. 12-bis,
 agli anni in cui il rapporto di lavoro e' coinciso con il matrimonio,
 determina disparita' di trattamento  tra  situazioni  sostanzialmente
 omogenee.
   Pur  tenendo  presenti  le  ragioni  di  certezza  che possono aver
 determinato il legislatore ad introdurre la disposizione in  oggetto,
 ancorandola  ad  un dato certo, qual'e' la durata del matrimonio, non
 ci si puo' esimere dal considerare -  come  giudici,  ma  anche  come
 cittadini  che  vivono  in un contesto sociale, quindi sensibili alle
 condizioni in cui  versano  entrambe  le  parti  in  un  giudizio  di
 cessazione  degli  effetti  civili del matrimonio - che il privilegio
 per le esigenze di certezza non deve far dimenticare o considerare in
 subordine,  che  talvolta  una  valutazione  astratta  non   soddisfa
 l'esigenza   di  un  diritto  giusto  che  risponda  alle  istanze  e
 condizioni concrete di tutti, e cioe'  sia  degli  aventi  diritto  a
 pretese garantite, che dei soggetti obbligati.
   Invero  questa  Corte,  avendo  avuto occasione di pronunciarsi sul
 tema che viene riproposto alla sua attenzione, ha  evidenziato  come,
 con  la  riforma  della  disciplina  del divorzio, il legislatore del
 1987, ha mirato a rimuovere  gli  effetti  di  segno  negativo  ed  a
 ripristinare  una  situazione  di  uguaglianza  tra  i  soggetti  del
 rapporto matrimoniale (nella misura in cui cio' sia possibile dopo la
 dissoluzione del vincolo coniugale), con l'obiettivo di  tutelare  il
 soggetto  economicamente  piu'  debole  e valorizzare la solidarieta'
 economica che lega i coniugi durante il matrimonio.
   Sebbene  sia  pacifico  che  la prevalente giurisprudenza - ai fini
 della   determinazione    del    quantum    dell'assegno    divorzile
 (dall'attribuzione del quale deriva il diritto alla percezione di una
 quota  del  t.f.r.)    -  ritiene  che  il contributo alla conduzione
 familiare ed alla formazione del patrimonio comune  e  di  quello  di
 entrambi  i  coniugi  vada  valutato con riferimento alla complessiva
 durata del matrimonio, comprendente anche il periodo di  separazione,
 tale  principio  non  e'  garantistico  che  si  applichi  anche  per
 l'attribuzione del t.f.r.
   Le esigenze di assistenza e di tutela del coniuge piu' debole e  di
 riconoscimento    dell'apporto   fornito   alla   famiglia,   restano
 sufficientemente  soddisfatte  attraverso  l'introduzione   normativa
 dell'art. 12-bis, in via generale.
   La  norma  diventa  ingiusta,  di  difficile  applicazione  per  le
 coscienze  della  maggior  parte  degli  operatori  del  diritto,  ed
 eccessivamente gravosa per il coniuge obbligato, laddove determina in
 misura  fissa,  per  tutta  la  durata  del  matrimonio, l'indennita'
 dovuta.
   Ed infatti non e'  certo  e  scontato  che  sempre  e  comunque  la
 collaborazione  tra  i  coniugi  continui  anche  oltre  la  data  di
 comparizione  innanzi  al  presidente  del  Tribunale  in   sede   di
 separazione   (pur   ammettendo   che   essa   esistesse  durante  la
 convivenza).
   D'altronde non in tutti i nuclei  familiari  c'e'  la  presenza  di
 figli  da  curare,  seguire,  assistere  ed istruire; e del resto ove
 presenti, non sempre sono affidati  al  coniuge  economicamente  piu'
 debole.
   In   queste   ipotesi,   che   non   costituiscono   casi   limite,
 l'applicazione del criterio  formale  di  ripartizione  di  cui  alla
 norma,  risulta  fonte  di  summa iniuria per il coniuge obbligato il
 quale potrebbe essere costretto comunque  a  provvedere  non  solo  a
 mantenere economicamente i figli, ma anche ad assisterli, educarli ed
 istruirli se coniuge affidatario.
   Non  si  puo'  dunque  giustificare,  in ipotesi di questo tipo, la
 corresponsione  al  coniuge  assegnatario  di  una  quota  di  t.f.r.
 commisurata alla intera durata del matrimonio, non riuscendo a questo
 giudice  di configurare le modalita' concrete del contributo prestato
 dallo stesso coniuge creditore alla conduzione della vita familiare.
   L'accostamento che la Corte ha  avuto  occasione  di  fare  tra  il
 criterio  di ripartizione (basato sul tempo) oggetto di censura, e la
 "durata del matrimonio" tenuta presente dal  legislatore,  in  ordine
 alla determinazione dell'assegno di divorzio, trascura di considerare
 che  in  quest'ultimo caso il fattore tempo non e' il piu' importante
 parametro al quale commisurare l'assegno.
   Inoltre, come ha avuto occasione di fare presente la stessa  Corte,
 esso non e' l'unico.
   Del  resto  l'assegno  non  puo'  trasformarsi  in  una  rendita di
 carattere parassitario, potendo venire a mancare, in talune  ipotesi,
 l'an circa l'attribuzione dello stesso; mentre, in considerazione del
 mutare  dei presupposti per l'assegnazione, puo' essere modificato in
 qualunque momento.
   Alla luce dei presenti rilievi appare ancor piu' ingiusto che venga
 mantenuta nel nostro ordinamento la  norma  dell'art.  12-bis,    che
 attribuisce una volta per tutte una somma in misura fissa ancorandola
 ad  un  unico  dato  formale,  astratto  e troppo uniforme qual'e' la
 durata  del  matrimonio,  mancando la considerazione delle ipotesi di
 matrimoni nei quali il vincolo di comunione  spirituale  e  materiale
 (il  vero  matrimonio)  ha avuto durata non troppo lunga, ma e' stato
 seguito da una separazione di parecchi anni,  spesso  per  lungaggini
 giudiziarie  di  cui  certo  non  possono  pagare  le  conseguenze  i
 cittadini.
   2. - La norma in esame  contrasta  altresi'  con  l'art.  29  della
 Costituzione  che  fonda  il  matrimonio  sulla  eguaglianza morale e
 giuridica dei coniugi con i  soli  limiti  stabiliti  dalla  legge  a
 garanzia    dell'unita'    familiare,    oltretutto   definitivamente
 compromessa a seguito del divorzio.
   Anzi, coniuge piu'  debole  in  questa  situazione,  e'  certamente
 l'obbligato sul quale gravano tutti gli oneri di tipo economico e che
 vede  sottratte  dalla  sua  sfera,  somme per l'accantonamento delle
 quali ha lavorato e che  la  legge  gli  riconosce  personalmente  in
 quanto  cittadino,  ma  soprattutto  lavoratore,  avente  diritto  ad
 opportuni mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di vecchiaia.
   3. - In caso di distrazione al coniuge  avente  diritto,  di  quote
 determinate  tenendo presente tutta la durata del matrimonio, fino al
 passaggio in  giudicato  della  sentenza  di  divorzio,  risulterebbe
 sacrificata  la norma dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione
 che tutela fondamentalmente  il  lavoratore,  a  nulla  rilevando  il
 richiamo  che  il  primo  comma  del  predetto articolo contiene alla
 funzione previdenziale a favore di chi non ha  i  mezzi  per  vivere,
 essendo esplicito il riferimento della norma all'assistenza sociale e
 non da parte dell'altro coniuge.
   Non   potendo   la  presente  questione  essere  totalmente  decisa
 indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
 costituzionale,   e   ritenendo   la   questione  non  manifestamente
 infondata.